egidio 17 - CEDIDO Viterbo

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 L’Ecclesia viterbiensis: Spirituali o Eretici?
di Luciano Osbat (29 ottobre 2016
)


Introduzione

Viterbo, alla metà del XVI secolo, venne agli onori della cronaca perché si disse che lì si era formato un gruppo di chierici e di intellettuali  che sosteneva e diffondeva idee contrarie alla vera fede: era la Ecclesia viterbiensis. E questo produsse la conseguenza di attirare l’attenzione dei difensori dell’ortodossia presenti nella Curia di Roma come pure di molti che erano alla ricerca, in quegli anni confusi, di risposte adeguate alla crisi che segnava molte coscienze di cristiani, non solo tra ecclesiastici e aristocratici ma anche tra borghesi e popolani. Era la crisi di una religiosità che si confrontava con una cultura rinnovata, la cultura umanistica, con una economia in profonda evoluzione, con le straordinarie scoperte delle terre nuove e di nuovi mondi, con gli stati che stavano dando nuove regole al governo dei feudatari e delle comunità, con la Chiesa che si era trasformata in un principato moderno. Era una religiosità che davanti a queste trasformazioni  e a queste sfide non trovava risposte adeguate e andava alla ricerca di nuove soluzioni, da qualsiasi parte venissero.
"Molti anni fa le cose della religione in Italia andavano con pocha regola perché non era istituito l’offitio della santa Inquisitione o non era anchora ben fondata et gagliarda. Però in ogni cantone se parlava de dogmi ecclesiastichi et ogniuno faceva del theologo, et si componevan libri passim et si vendevano senza consideratione per tutti li lochi. Et molti lochi erano sensa Inquisitione et in molti lochi li inquisitori erano di pocha portata, talmente che era quasi lecito o tolerato a ogniuno fare e dire quanto li pareva": così si esprimeva il cardinale Giovanni Morone, processato e incarcerato dall’Inquisizione durante il pontificato di Paolo IV, in una memoria difensiva nella quale rievocava gli anni Quaranta e la confusione che regnava ovunque in materia di fede.
II primi decenni del Cinquecento inoltre furono segnati da fenomeni che contribuirono a rendere ancora più complessa la ricerca delle soluzioni:
il dibattito religioso e il confronto teologico era uscito dalle università e dai chiostri per scendere nelle piazze;
l’invenzione della stampa aveva moltiplicato in maniera esponenziale la diffusione delle notizie, delle idee, delle polemiche;
le questioni religiose della Chiesa di Roma si intrecciavano con le questioni politiche della successione imperiale e con la sfida tra Impero e Francia condizionandosi a vicenda.
All’interno di questi scenari si era collocato Lutero che aveva saputo cogliere alcune delle contraddizioni più evidenti della Chiesa del tempo e da qui era partito per la sua radicale riforma che aveva trovato l’appoggio dei poteri politici ma anche l’adesione di molti cristiani. La Chiesa non seppe trovare subito risposte adeguate alle critiche mosse da Lutero e questo produsse la diffusione indisturbata della riforma in tutta l’Europa almeno fino agli anni Quaranta quando fu convocato il Concilio e riorganizzato il tribunale dell’Inquisizione romana. Uno dei tentativi di organizzare una risposta alla crisi in atto fu la Ecclesia viterbiensis, locuzione che non fu coniata da coloro che ne furono gli interpreti ma da coloro che misero sotto accusa gli autori di quel tentativo perché eretici.

La Viterbo tra Egidio Antonini e Reginald Pole

La storia che tento di abbozzare si svolge in più riprese e in ambienti diversi. La prima prende le mosse da Viterbo durante gli anni dell’episcopato dell’Antonini (1523-1532) e quelli di Nicolò Ridolfi, di Piero Crasso e nuovamente del Ridolfi che coprono gli anni dal 1533 al 1548. La seconda si svolge in Veneto tra la fine degli anni Venti e la metà degli anni Trenta dello stesso secolo. La terza si svolge a Napoli tra il 1538 e il 1541. La quarta, la più famosa tanto da dare il nome a tutto un ciclo di avvenimenti, si svolge a Viterbo tra il 1541 e il 1543. L’ultima ha come punto di riferimento Roma dove si conducono i processi del Sant’Ufficio e dove si sviluppa e poi si esaurisce la battaglia per il dominio della Curia romana e per l’orientamento culturale, teologico e disciplinare della Chiesa della Controriforma.
Sullo sfondo di tutti questi scenari c’è una preoccupazione che emerge con sempre maggiore chiarezza: la necessità di una riforma della Chiesa. Vi aveva pensato Egidio e aveva espresso la sua opinione in occasione dell’orazione di apertura del quinto Concilio Lateranense, nel maggio 1512 quando aveva azzardato la profezia che stava per partire il momento in cui si sarebbe avviata una nuova era per la Chiesa con il desiderato rinnovamento, quasi un "ritorno dell’età dell’oro, la restituzione della Chiesa alla sua povertà, purezza, castità, santità, insomma alla sua perfezione originaria. Riforma significa per Egidio non innovatio, ma restitutio dell’antico splendore, una reductio ad origines di stampo conservatore che egli desiderava anche per il proprio ordine […] Nel discorso di apertura del quinto concilio lateranense Egidio indica il concilio come il mezzo principale per riformare la Chiesa. La riforma della Chiesa avrebbe dovuto dunque essere compiuta sotto il controllo dei sinodi: <absque synodis igitur salvi esse non possumus>, e ancora <quoties a synodis habendis cessatum est, toties vidimus sponsam a sponso derelictam>. E’ il concilio a dare nuova vita alla Chiesa." E il papa e i padri conciliari dovranno essere i principali agenti della riforma. Nulla quindi che vada oltre una riforma morale e un rinnovamento intellettuale dei suoi responsabili senza alcun riferimento a come eliminare gli errori e i vizi così presenti nella Chiesa dei quali Egidio è ben consapevole e dei quali frequentemente scrive nelle sue lettere. "Le idee egidiane sulla Chiesa sono state inquadrate piuttosto nel filone spiritualista, quasi come se Egidio debba considerarsi un predecessore di questi Spirituali che nei decenni successivi saranno tra i protagonisti della vita religiosa italiana e quasi come se egli avrebbe potuto svolgere un ruolo di mediazione tra Lutero ed il papato. Io non credo che ciò corrisponda in pieno alla realtà".
Negli anni della presenza a Viterbo di Egidio come vescovo la sua azione lo potrebbe far accomunare ad altri vescovi che, prima del Concilio di Trento, avevano preso seriamente l’impegno di amministrazione e di governo della propria diocesi ma nulla che lo possa far qualificare per anticipatore del Concilio di Trento.
I vescovi che vennero dopo di lui, secondo quanto ha scritto il Signorelli,  furono più impegnati nella Legazione del Patrimonio e negli affari di Firenze (il Ridolfi) e nell’educazione del nipote di Paolo III, Alessandro Farnese a Roma (il Crasso), per occuparsi adeguatamente della Diocesi di Viterbo pur se il Signorelli loda il Crasso per aver tentato di creare una scuola per i chierici e per essersi occupato dell’educazione dei giovani spingendo il Comune a finanziare le scuole  per i giovani  della Città. Della  situazione nella diocesi il Signorelli dice solo che "il clero si mostrava ossequiente ai dogmi e remissivo agli ordini di Roma; e nel popolo persisteva l’antica fede, per quanto anche qua si notasse un certo intiepidimento nelle pratiche cultuali in alcuni cittadini delle classi più elevate, non perché vi avessero fatto breccia le idee innovatrici, ma per l’indifferenza, la peggior nemica forse della religione." Non sono noti sino ad oggi i documenti che ci possano consentire di tracciare un quadro diverso della situazione viterbese, soprattutto intorno agli anni Quaranta. E anche sulla personalità e sul ruolo del Ridolfi ci dovrebbero essere altri particolari da aggiungere che forse lo renderebbero meno estraneo alla situazione viterbese come il Signorelli voleva far credere: mi riferisco al fatto che anche il Ridolfi fu accomunato agli Spirituali e alle posizioni del cardinale Contarini nelle corrispondenze intercorse tra membri della Ecclesia viterbiensis negli anni Quaranta e che anche nel corso del Concilio di Trento, quando si levarono voci e si scrissero lettere contro coloro che avevano simpatie luterane, si annoverò tra costoro il Ridolfi; infine al Ridolfi dedicò un sonetto Marcantonio Flaminio per lodarlo di quanto aveva fatto a Bagnaia per l’avvio di quello che sarà il rinascimento del borgo e la progettazione di quella che sarà poi Villa Lante: se il Ridolfi fosse stato ostile agli Spirituali certamente il Flaminio non gli avrebbe dedicato il sonetto.

Gli Spirituali: dal Veneto a Viterbo attraverso Napoli

La seconda scena della storia che tento di ricomporre si svolge in Veneto, tra  Verona, Venezia e Padova  negli anni Venti e Trenta. Subito dopo il Sacco di Roma è qui che si rifugia Egidio Antonini e vi rimane per buona parte del 1528 e 1529. In quegli anni è vescovo di Verona quel  Gian Matteo Giberti che fu un precursore delle riforme poi decise a Trento, e al quale si ispirarono i vescovi riformatori della generazione successiva a cominciare da san Carlo Borromeo. Venezia, fin dalla prima circolazione degli scritti di Lutero e dei suoi seguaci,  fu la porta attraverso la quale la stampa luterana e riformata in genere entrava copiosa in Italia e da qui si spargeva per il resto d’Italia. Venezia inoltre è il luogo dove agiscono i più importanti stampatori  che, fino all’introduzione dell’Indice dei libri proibiti (che ebbe proprio a Venezia una delle prime stesure) producono molti testi che poi saranno dichiarati eretici. A Venezia infine in quegli anni (dopo il Sacco di Roma) si stavano riorganizzando nella sede di S. Nicola da Tolentino i teatini sotto la guida di san Gaetano da Thiene e di Gian Pietro Carafa.  E lì si creò un centro di spiritualità e di vita culturale di grande richiamo al quale attinsero Gaspare Contarini, Matteo Giberti, Reginaldo Pole, forse Pietro Bembo. Fin dagli anni veneziani il Carafa si occupò di lotta contro gli eretici imbastendo anche qualche processo contro persone accusate di luteranesimo e si segnalò per la strenua lotta che conduceva contro coloro che potevano essere sospettati di simpatie per i luterani (tra questi, fin da quegli anni, il Pole). Accanto a Venezia, Padova era tra i primi centri culturali europei frequentata da studenti e docenti di tutta Europa e dove si formarono il Pole (già a Padova dal 1521 e fino al 1525 quando andò prima a Parigi e poi ritornò in Inghilterra ma fu nuovamente a Padova a partire dal 1532), il Contarini, Vittore  Soranzo,  Marcantonio Flaminio, Pier Paolo Vergerio, Alvise Priuli e dove viveva e pontificava il Bembo con il quale tutti questi giovani chierici erano entrati in contatto. Più tardi, nel 1549, dopo essere passato per Roma, Milano e Napoli, a Venezia arriverà anche il viterbese Girolamo Ruscelli e vi resterà fino alla morte avvenuta nel 1566, spettatore di quanto accadrà a molti di questi personaggi e, in alcuni casi, attento raccoglitore di loro scritti e di loro lettere.
L’avvento al pontificato di Paolo III Farnese, nel 1534, segna una tappa importante per la storia personale di molti di questi uomini: nel 1536 arrivano le nomine cardinalizie del Contarini, del Carafa, del Pole, nel 1538 del Bembo. Si comincia ad organizzare una reazione alla diffusione del luteranesimo, ci sono i primi progetti concreti che prevedono la convocazione di un concilio. E’ opera per gran parte dello stesso gruppo - il Contarini, il Carafa, l’Aleandro, il Pole, il Fregoso, il Giberti, il Cortese, il Badia e il Sadoleto – negli anni 1536-1537 la redazione del Consilium de emendanda ecclesia che sarà presentato nel 1537 a Paolo III;  si organizzano più serrati confronti nella Chiesa e con i riformati che porteranno ai Colloqui di Ratisbona (1541) nel tentativo di ritrovare un punto di incontro tra la Chiesa e i Riformati; nello stesso periodo quella parte della Chiesa che non credeva di dover più esitare davanti al dilagare della Riforma spinse per la ripresa e la riorganizzazione del tribunale del Sant’Ufficio che avverrà nel 1542 sotto la guida di Gian Pietro Carafa.
Il Giberti, il Contarini, il Pole, il Bembo "Tutti chiamati da Paolo III nel sacro collegio, […] costituivano il nucleo più prestigioso di un gruppo non solo sensibile all’urgenza di una riforma della Chiesa, ma anche animato da un atteggiamento irenico nei confronti dei protestanti e disposto a recepire alcune delle loro rivendicazioni al fine di ricomporre l’unità della Chiesa e di arrestare il dilagare dell’eresia. Era il cosiddetto evangelismo italiano, che per una pur breve stagione si profilò come una concreta prospettiva di azione politica ai vertici della  curia […] per i consensi che seppe acquisire tanto nell’ambito della gerarchia ecclesiastica quanto tra illustri famiglie aristocratiche e nelle stesse corti di Firenze, Mantova, Urbino".
La maggior parte del gruppo che si era formato tra Padova e Venezia, alla fine degli anni Trenta, si ritrovò a Napoli alla scuola di Juan de Valdés. Egli era il maggior esponente in Italia di quel alumbradismo spagnolo che fu ispiratore di "una scelta religiosa, capace di misurarsi con le dottrine riformate, di recuperarne alcune delle istanze più significative e al tempo stesso di offrire una risposta autonoma e creativa alle esigenze da cui muovevano. Il culmine del percorso del Valdés si compi a Napoli tra il 1536 e il 1541, anno della sua morte, quando le sue opere che circolavano manoscritte (L’Alfabeto cristiano, le Cento e dieci divine considerazioni, i Commenti ai Salmi, ai Vangeli e alle Lettere di san Paolo) sembrarono fornire le risposte più esaurienti a coloro che si riconobbero come suoi discepoli e che erano alla ricerca di risposte alle loro inquietudini spirituali ma non volevano rompere con l’istituzione ecclesiastica. L’esperienza religiosa, secondo costoro, era un percorso di acquisizione della verità attraverso una rivelazione divina che le dava una indelebile certezza interiore; non dai testi scritturali quindi ma dall’illuminazione interiore dello spirito poteva venire la risposta cercata. Tutti sono chiamati alla salvezza purché si abbandonino con fiducia alla misericordia di Dio trasmessa nel sacrificio della croce. Questa esperienza di fede prescindeva in qualche modo dalla Chiesa alla quale si assicurava una obbedienza formale rimanendo il percorso tutto interno alla coscienza.
Tra i discepoli del Valdés a Napoli troviamo  Marcantonio Flaminio, Giulia Gonzaga, Pietro Carnesecchi, Vittore Soranzo, don Benedetto Fontanini da Mantova (il primo autore del Beneficio di Cristo), Pietro Antonio Di Capua, arcivescovo di Otranto. Erano presenti a Napoli negli stessi anni anche Bernardino Ochino e Pier Martire Vermigli che contribuirono a far conoscere le idee del Valdés in molte città italiane prima di rompere con la Chiesa di Roma e fuggire all’estero subito dopo che era stato riorganizzato il tribunale del Sant’Ufficio che tra i primi atti aveva convocato proprio i due a Roma per un interrogatorio.
Dopo la morte del Valdés , nella primavera-estate del 1541, il gruppo che si era formato a Napoli si trasferì a Viterbo, alla corte del nuovo Legato del Patrimonio, appunto Reginald  Pole che divenne il nuovo riferimento per tutti gli Spirituali.  Egli aderì alle posizioni del Valdés perché "Quel raffinato spiritualismo esoterico si presentava ai suoi occhi non solo come la chiave di volta di un precario equilibrio in grado di rendere compatibile un’ormai convinta adesione ad alcune dottrine fondamentali della Riforma con l’assenza di ogni rottura ecclesiologica, ma addirittura come uno strumento propositivo capace di offrire risposte credibili alle diffuse inquietudini religiose, di riassorbire il dilagante dissenso ereticale, di suggerire gli obiettivi prioritari di una ormai inderogabile riforma, di indicare una via praticabile per giungere all’auspicata ricomposizione della christianitas europea".
Il Pole offrì ai seguaci di Valdés l’occasione per una diffusione delle idee e degli scritti nella vicina Roma e in tutt’Italia che altrimenti sarebbe stata impossibile. La sua protezione e il favore di altri come il Contarini, il Morone, il Sadoleto, il Bembo che condividevano con lui la ricerca dei rimedi per la riforma della Chiesa, diedero alla Ecclesia viterbiensis una visibilità e una incidenza del tutto inimmaginabili ai tempi della scuola del Valdés a Napoli. Mentre il Pole proseguiva nel suo proselitismo, grazie alla penetrante azione svolta da Marcantonio Flaminio che si stava occupando di una nuova versione del Beneficio di Cristo e della stampa delle opere del Valdés, altre influenze valdesiane si esprimevano nelle posizioni avanzate del Contarini che a Ratisbona, nel maggio 1541, aveva tentato di trovare vie di incontro nelle discussioni con i Riformati proponendo la formula della doppia giustificazione che richiamava quella adombrata da Egidio Antonini quarant’anni prima (siamo giustificati per Cristo; le opere non aggiungono nulla che non sia già stato operato da Cristo, la carità è testimonianza della fede e per questo la carità salva). Queste posizioni però non erano condivise da gran parte della Curia e lo stesso Pole non si sentì di appoggiarle perché era consapevole che si sarebbe provocata  una lacerazione con coloro che a Roma le ritenevano estranee alla teologia scolastica classica e piuttosto una concessione agli eretici luterani. Ed egli, dicono coloro che l’hanno studiato a fondo, non voleva rompere con  la Corte pontificia a costo di incrinare il suo rapporto con il Contarini.
Altre seguace di Valdés divenne il neo cardinale Morone (per l’influenza del Flaminio), nominato nel 1542 vescovo di Modena e di lì a poco Legato al Concilio insieme al Pole, Concilio  che si doveva aprire a Mantova, Vicenza, Ferrara e che alla fine si aprirà a Trento con il Pole  ancora Legato del Papa insieme a Del Monte e a Cervini. Il Morone fu il primo a sperimentare sul campo, nella sua azione pastorale prima a Modena e poi come Legato a Bologna, le idee del Valdés chiamando a predicare religiosi che sapeva ispirati dagli stessi sentimenti sul tema della riforma della Chiesa e circondandosi di collaboratori legati in qualche modo agli Spirituali.
Gli anni di presenza a Viterbo del Pole e dei suoi amici, il passaggio per Viterbo di tanti personaggi che si riconoscevano nelle posizioni degli Spirituali o della Ecclesia viterbiensis che tracce hanno lasciato nella vita della Città e della sua popolazione? C’è da osservare che se la Legazione del Pole era cominciata nell’estate del 1541, già nel novembre dello stesso anno egli aveva nominato un Vice-legato e suo Procuratore generale nella persona di Vincenzo Parpaglia; nel novembre 1542 il Pole aveva lasciato Viterbo per il suo incarico di Legato tornando a Viterbo nell’estate del 1543 ma trasferendosi quasi subito a Roma, cosa che fece anche Vittoria Colonna, la sua fedelissima discepola; la nuova nomina a Legato a Trento lo portò in quella Città nel maggio 1545 e fu nuovamente a Viterbo solo nel novembre 1546 quando presenziò all’inaugurazione dell’Università. Nel marzo del 1547 il Pole fu sostituito nella Legazione da Pietro Antonio Angelini, vescovo di Sutri e Nepi e mantenne solo il governo di Bagnoregio da dove sono datate alcune sue lettere ancora nel 1550: è da escludere però che il Pole risiedesse a Bagnoregio, è molto più probabile che fosse rientrato a Roma dove partecipò al conclave che poi elesse Paolo Giulio III (Del Monte) e dove rimase fino al 1552 quando si allontanò da Roma per il nord Italia. Nel settembre di quell’anno fu delegato del papa alla pace tra Enrico II e Carlo V e da qui si trasferirà in Inghilterra dopo il matrimonio tra Maria Tudor e Filippo II e qui morirà nel 1558 senza più aver fatto ritorno in Italia.
La breve e spesso interrotta presenza del Legato nella sua provincia non porta però ad escludere che i suoi collaboratori, Marcantonio Flaminio in primis, abbiano avuto l’occasione di svolgere opera di diffusione delle idee valdesiane a Viterbo. Non vi sono elementi che consentano di provarlo e le carte del vescovo di Viterbo, Sebastiano Gualterio che resse la Diocesi tra il 1551 e il 1566, conservate nella documentazione dei nostri archivi non dicono nulla a proposito. E’ certo però che quando il Gambara, successore del Gualterio, verrà nominato a Viterbo, egli – che era stato Inquisitore generale ai tempi di Pio V (Ghisleri) e che era stato protagonista nei processi contro Pietro Carnesecchi (1566-1567) e Niccolo Franco (1568-1570) che avevano fatto parte della Ecclesia Viterbiensis  e di altri prelati accusati di eresia come l’arcivescovo di Toledo Bartolomé Carranza (1559-1576), aveva ricevuto l’incarico preciso da Pio V di ristabilire l’ordine e l’ortodossia in una diocesi che aveva visto la presenza incisiva di correnti eretiche come appunto la Ecclesia viterbiensis. A Roma si riteneva che tali focolai fossero ancora presenti in Città.

Il Concilio di Trento, l’Inquisizione e gli Spirituali

L’appoggio di personaggi importanti come il Pole e il Morone non aveva evitato agli Spirituali (come spesso sono stati chiamati da amici e da avversari) di essere sempre più nel mirino di quella parte della Curia che voleva una lotta strenua contro tutti coloro che erano sospetti di deviazioni dalla strada che la maggioranza della Chiesa o la parte più importante della Curia romana aveva intrapreso. Tanto più che negli stessi mesi in cui il Pole era a Viterbo, come già ricordato,  il 21 luglio 1542, Paolo III aveva formalizzato la riorganizzazione del tribunale del Sant’Ufficio. L’inquisizione romana cominciò subito ad attivarsi e tra i primi sospetti vi furono Bernardino Ochino, Pier Martire Vermigli, il Flaminio "et gli altri che stanno a Viterbo col cardinale d’Inghilterra". In questo elenco di sospettati fu compreso presto anche il Morone  che era rimasto affascinato dalle tesi del Valdés conosciute attraverso il Flaminio e nel suo lavoro a Modena aveva tentato di darvi pratica attuazione mostrando molta comprensione nei confronti di coloro che in Città erano accusati di essere luterani e chiamando a predicare persone che erano vicine alle posizioni degli Spirituali. Nemmeno la nomina fatta da Paolo III del Pole  come Legato al Concilio nel 1545 (insieme al Del Monte e al Cervini) interruppe la raccolta di indizi e di prove che il Carafa, anima del Sant’Ufficio, andava accumulando contro la Ecclesia Viterbiensis e che presto saranno usate per evitare che la posizione del Pole e del Morone diventasse ancora più incisiva all’interno della Chiesa.
Quando il Concilio di Trento dibatté il decreto sulla giustificazione tra il giugno 1546 e il gennaio 1547, lo scontro con le posizioni più conservatrici all’interno della Chiesa fu inevitabile.
L’uomo passava sotto l’azione della grazia di Dio dallo stato di ingiustizia e di avversione a Dio allo stato di giustizia: era uno dei temi fondamentali dei protestanti ma lo stesso problema era vissuto anche in ambienti cattolici di spiccata sensibilità religiosa. Nei primi decenni del XVI secolo su questo tema si erano diffuse nel mondo cattolico le opinioni più disparate e contraddittorie anche a causa dell’incertezza dottrinale che aveva provocato deformazioni che talvolta fu impossibile riassorbire nell’ortodossia. Mancava una adeguata elaborazione teologica e spirituale dei problemi che la crisi di questi tempi aveva portato in primo piano anche a causa delle formulazioni teologiche inadeguate e della predicazione luterana.
La nuova sensibilità religiosa si scontrava con la crisi della scolastica. Molti gli uomini del tempo che erano alla ricerca di nuove letture che la predicazione luterana aveva spostato da dibattito tra scuole e università a confronto tra i fedeli.
I legati al Concilio, quando cominciò la discussione sul tema della giustificazione, erano consapevoli di quanto la materia fosse difficile. Scrissero al card. Farnese nel giugno 1546: "Havemo proposto questa mattina in la congregatione generale il dogma della justificatione, mostrando con più ragioni, che per procedere ordinatamente non si poteva passare innanzi senza discuterlo prima, et che, se bene era intricato e difficile, nondimeno speravamo in Dio, che, usandovi diligenza, s’havesse a chiarire in ogni sua parte cattolicamente per satisfattione di molte anime, che errano in questo articolo per ignorantia". Era almeno una decina d’anni che da parte di alcuni vescovi e cardinali si chiedeva chiarezza dottrinale sul tema tanto più che si vedeva tanti che parlavano di giustificazione, di fede, di carità ma che erano pochi quelli che capivano di che cosa si stesse parlando e scrivendo. E quando si parlava in pubblico di libero arbitrio e di grazia di Dio, si correva subito il rischio di essere sospettati d’essere luterani per il solo fatto di usare quelle espressioni.
Il decreto approvato a Trento fu il prodotto degli esperti in teologia e rifletteva più gli orientamenti delle scuole di appartenenza dei teologi che volevano prevalere l’una sull’altra che l’interesse della Chiesa e dei cristiani. Sostanzialmente non ci si spostò dalle classiche conclusioni della teologia medievale. E gli studi che sono stati condotti sul decreto sono opera prevalentemente di teologi che quindi non hanno considerato i problemi storici e spirituali che si collegano strettamente con il dibattito sulla giustificazione. Il Pole, che per le idee che aveva abbracciato, non poteva vedere favorevolmente che si alzassero steccati di chiusura nei confronti dei luterani, non votò a favore del decreto sulla giustificazione e, quando la discussione fu giunta al termine, abbandonò Trento con la motivazione di problemi di salute per evitare di doversi esprimere. Questo comportamento gli sarà rimproverato sia dai suoi amici e soprattutto dai suoi nemici che videro in questo atteggiamento una esplicita confessione di adesione alla Riforma. Questo fu uno degli argomenti fatti valere contro la sua elezione al pontificato quando il collegio dei cardinali, alla morte di  Paolo III, si stava orientando verso di lui che era sostenuto da tutti i cardinali imperiali e spagnoli e da una parte di italiani.
Quando cominciò il dibattito a Trento, il Contarini era già morto e il Giberti pure,  il Pole fu assente nel momento decisivo, il Morone  pure. Quindi a rappresentare quelle inquietudini degli "Spirituali" vi furono esponenti minori che spesso si mostrarono incerti e timorosi di esprimere le loro idee e talvolta si allontanarono da Trento per non compromettersi quando si cominciò a discutere della  giustificazione, tra questi minori il Bandini, il Sanfelice,  il Contarini iunior, il Florimonte.
Per superare l’insoddisfacente soluzione proposta dalla scolastica al problema della giustificazione, si propose la teoria della doppia giustificazione, che dentro e fuori del Concilio era sostenuta da cattolici di grande autorità e ortodossia. La proposta sostenuta in Concilio da Girolamo Seripando (e che si ricollegava a quanto sostenuto dal Contarini a Ratisbona) non fu messa in votazione dai legati perché bocciata dai teologi con la motivazione che le differenze tra i cattolici potevano attendere e intanto si dovevano chiarire le differenze con i luterani.
Perché gli Spirituali presenti in Concilio non appoggiarono Seripando? Un po’ per prudenza, un po’ perché non erano in grado di capirla e poi perché la formula era in fama di scarsa ortodossia. La formula in effetti era fragile e molti di loro la giudicarono una inutile ripetizione. "Nel mondo teologico del XVI secolo il rifiuto delle strade offerte dalla teologia scolastica presentava, per chi volesse rimanere nell’ambito dell’ortodossia, difficoltà estremamente ardue".
Gli uomini della riforma cattolica del 1541 avevano condiviso la formula della doppia giustificazione che sembrava essere una soluzione come era stata proposta a Ratisbona. I vescovi italiani del Concilio non la condivisero perché non capirono che si potessero dare soluzioni diverse da quelle delle grandi scuole tradizionali. Il Decreto e i canoni conciliari resero impossibile da quel momento la professione della formula della doppia giustificazione: le istanze spirituali espresse da alcuni prelati e da molti laici rimasero al margine delle deliberazioni conciliari.

Durante il pontificato di Giulio III il Pole, che era protetto dal Papa come il Morone, abbandonò presto Roma per svolgere incarichi per conto dell’Imperatore e poi della nuova regina di Inghilterra Maria. Ma nel corso di quegli anni si svolse l’incarcerazione di Vittore Soranzo e il processo davanti all’Inquisizione che si concluse con l’intervento dello stesso pontefice che era ben consapevole che se il Soranzo fosse stato condannato dal tribunale, subito dopo sarebbe toccato al Pole e al Morone. Fu il suo intervento che produsse la chiusura della procedura con la confessione resa dal Soranzo nell’estate del 1551 che lo sottrasse alla condanna. Il Carafa  però non cesserà di raccogliere testimonianze contro di lui e soprattutto contro il Pole  e il Morone.
Nel conclave del 1555 dopo la morte di  Giulio III e poi di Marcello II  (al quale il Pole  non partecipò) egli era entrato ancora come candidato sostenuto dagli imperiali ma con la fazione del Carafa ormai divenuta esplicitamente ostile e in possesso di documenti comprovanti – a loro dire - pienamente l’eresia del Pole e del suo circolo. L’ascesa al pontificato di Gian Paolo Carafa (Paolo IV) diede il via ad una serie di processi che portarono all’incarcerazione del card. Morone e di altri vescovi e chierici. Il Pole scrisse a Paolo IV in difesa del Morone ma ormai nulla poteva fermare il Papa inquisitore che avrebbe incarcerato anche il Pole se fosse stato in grado di raggiungerlo.  Nel frattempo questi si era ammalato e nel novembre 1558, come detto,  morì e fu sepolto nella cattedrale di Canterbury.
Nell’autunno 1557 anche al Soranzo fu ordinato di presentarsi nuovamente a Roma per essere processato. La malattia e la morte avvenuta nel maggio 1558 non lo sottrassero alla condanna del tribunale del Sant’ufficio e alla privazione della dignità episcopale.  Il Morone  per due anni fu rinchiuso a Castel Sant’Angelo e fu liberato solo dopo la morte di Paolo IV per l’intervento del suo successore Pio IV insieme ad alcuni vescovi che erano stati processati nello stesso tempo e a Pietro Carnesecchi.
La morte del Soranzo e del Pole non interruppe né la raccolta di prove contro gli eretici della Ecclesia viterbiensis né lo sviluppo di processi a loro carico. Sarà per volere di Pio V (il cardinale Michele Ghisleri già inquisitore di fiducia del  Carafa) e con la decisiva collaborazione di Giovan Francesco Gambara che il Carnesecchi sarà nuovamente processato e condannato e finirà i suoi giorni decapitato e arso a Ponte Sant’Angelo e che si tenterà di portare nuove prove per un nuovo processo contro il Morone che il Gambara aveva sempre giudicato per eretico e che fu l’unico a superare la grande stagione dei processi inquisitoriali anche contro cardinali, arcivescovi e vescovi ritenuti eretici perché morì nel 1580.

Per concludere: Inquisizione ed eresia

Se rileggiamo la storia della Chiesa attraverso la lente dei processi celebrati dai tribunali del Sant’Ufficio arriviamo a conclusioni errate. Sono molti coloro che sono stati condannati per eretici che la Chiesa oggi non giudicherebbe più per tali. E’ la stessa cosa è avvenuta ad esempio per il processo a Galileo Galilei: i codici di quel tempo che servivano per regolare la condotta dei
fedeli imponevano che si ritenessero per buone alcune teorie cosmologiche che trovavano  conferma nei testi sacri. E coloro che non li osservavano erano coerentemente portati davanti all’Inquisizione per essere puniti perché quello commesso non era un peccato ma era un reato. Oggi la Chiesa si è espressa in altro modo sul processo a Galilei.
Possiamo dire la stessa cosa per la Ecclesia viterbiensis? E’ verosimile dire che oggi un esponente degli Spirituali non sarebbe condannato al rogo; è del tutto corretto aggiungere che alla luce delle decisioni che erano state prese a Trento e delle direttive che i Pontefici avevano dato ai tribunali dell’Inquisizione romana, quegli uomini si erano messi al di fuori della Chiesa  istituzionale e quindi furono condannati perché avevano disubbidito alle norme che regolavano quella istituzione. Anche se non mancarono elementi, nei giudizi espressi contro di loro, che avevano a che fare più con l’acrimonia personale e la rivalità all’interno della Curia che con il rispetto delle regole.
Questo è il paradosso della storia. Questo talvolta è il paradosso della Chiesa. La storia ci consente di dire perché gli eventi si sono sviluppati in un determinato modo e ci permette di valutare quanto e perché eventi simili oggi non avrebbero la stessa sorte.
Lo stesso vale per la Chiesa che è nello stesso tempo istituzione  (con le sue leggi e le sue regole) e mistero di salvezza. Cinque secoli fa gli esponenti degli Spirituali sono stati processati e condannati anche perché non volevano erigere steccati per difendersi dai luterani.  Oggi il Papa saluta Lutero come una persona che ha avuto un grande ruolo per mettere la Parola di Dio nelle mani del popolo.
Chiudo con un concetto che Alberigo ha espresso a proposito delle discussioni che si sono svolte a Trento nel momento della votazione sul decreto della giustificazione: le generazioni che vissero tra il 1520 e il 1560 e che furono toccate dalle idee di rinnovamento della Chiesa, vissero questa esperienza con sofferenza interiore, con crisi personali che "costituiscono il patrimonio più geloso e autentico di quelle generazioni". Da quelle inquietudini molti uscirono con un atteggiamento di rottura della Chiesa e di lotta contro la Chiesa-istituzione, altri rimasero fedeli alla Chiesa-mistero di salvezza pur vedendo che l’istituzione seguiva vie ed indirizzi diversi da quelli che si potevano leggere e interpretare nel messaggio evangelico. Ebbero il coraggio di testimoniare la loro fede come la loro coscienza suggeriva, imponeva.   

La Ecclesia viterbiensis e gli Spirituali sono stati un momento importante della storia della Chiesa, un momento che, per caso, si è svolto anche nella Città di Viterbo. Quella Viterbo che così come è stata per secoli spettatrice di quello che avveniva a Roma, nella Chiesa e nel mondo, anche davanti all’esperienza della Ecclesia viterbiensis è rimasta a guardare senza percepire quel lembo di storia che la sfiorava e passava oltre.



Bibliografia di riferimento

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Testi di R. Pole nella Biblioteca capitolare del CEDIDO

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[Andreas Dudith], Vita Reginaldi Poli Britanni, S.R.E. Cardinalis et Cantuariensis Archiepiscopi, Venetiis, MDLXIII, Ex Officina Dominici Guerrei et Ioan. Baptistae fratrum (E 26)
De Concilio liber Reginaldi Poli Cardinalis, Romae, MDLXII, Apud Paulum Manutium Aldi F. (F 30)
Reformatio Angliae ex Decretis Reginaldi Poli Cardimnalis Sedis Apostolicare Legati. Anno MDLVI, Romae, MDLXII, Apud Pauklum Manutium Aldi F. (F 30)

Reginaldi Poli Cardinalis Britanni, ad Henricum Octavum Britanniae Regem, pro ecclesiasticae unitatis defensione, libri quatuor, Romae Apud Antonium Bladum Asulanum (O 284)

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